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  • Emilio Bucciotti

EPISODIO 2. - La Cupola di San Gaudenzio: l’altra ‘Mole’ Antonelliana di Novara

Parte 2 (trascrizione)



(Progetto per la Cupola di San Gaudenzio del 1841)


l'inizio del cantiere

Benvenuti su Alta Italia Heritage. Nel secondo episodio copriremo la parte 2 del nostro racconto sulla Cupola di San Gaudenzio, l’altra ‘Mole’ concepita dall'architetto Alessandro Antonelli, situata a Novara, in Piemonte. Se non l'hai già fatto, ascolta la parte 1 (episodio 1) nella sezione 'Podcast' del sito. La registrazione è anche disponibile su Spotify e su iTunes, alla pagina "Alta Italia Heritage".

Siamo dunque ritornati all’anno 1841: Alessandro Antonelli è un disegnatore rapido, e in appena un anno ha prodotto, su richiesta del Consiglio d'Amministrazione della Fabbrica, un progetto per la cupola di completamento della basilica gaudenziana. Il budget è stimato in 152 mila lire. Ricordiamolo: dopo la Restaurazione, la Fabbrica di San Gaudenzio ha perso la sua indipendenza finanziaria, garantitagli dalla riscossione del 'sesino', ed è perlopiù il Comune a dover reperire i fondi. A presiedere la Fabbrica in quegli anni è Filiberto Tornielli Rho, esponente di una delle casate più illustri nel novarese. Più che un progetto, quello che Tornielli Rho riceve è un disegno di massima: Antonelli, di fatti, ha in mente alcuni capolavori dell’architettura, come le cupole della chiesa di Sainte-Genèvieve e quella degli Invalidi (entrambe a Parigi); quella del Guarini sopra la chiesa di San Lorenzo (Torino); la cupola di Chritopher Wren di Saint Paul Cathedral (a Londra). Antonelli non entra troppo nel dettaglio; e dato che l’architetto è una personalità nota, il rapporto con la committenza è basato sulla parola (che Antonelli non avrà scrupolo di rimangiarsi, come vedremo). Circa il design proposto, si direbbe un poco ‘old style’, ma ai fabbricieri e al pubblico piace, tant’è che il Consiglio della Fabbrica lo approva; e le sottoscrizioni necessarie vengono trovate entro il 1844 (nel frattempo, Antonelli rifarà il portale della basilica, con soddisfazione di tutti). Ora, è qui che gioca la capacità dell’Antonelli di intortare la sua stessa committenza. Perché il primo atto dell’Antonelli è convincere i committenti che gli arconi di sostegno e il tamburo su cui andrebbe poggiata la sua cupola sono troppo deboli. Vanno quindi potenziati. Così, le prime 50 mila lire del budget vanno in cavalleria solamente per questi lavori, diciamo, di adeguamento strutturale (cominciati nel settembre del ‘44). Ora, un altro passaggio che ci serve introdurre, per capire come si lavorava quando in Piemonte non esistevano ancora le ferrovie, è l’intermediazione tra architetto e operai fornita dal capocantiere o direttore dei lavori. Antonelli sceglie il ‘meccanico’ (nel senso di esperto di 'macchine' per l'edilizia) Giuseppe Magistrini: un uomo di famiglia poverissima, un illetterato in grado a mala pena di scrivere, nemmeno formato quale architetto; ma per le competenze nella carpenteria in legno e nella gestione dei cantieri si rivela il candidato ideale. È lui, Magistrini, a produrre un modello dettagliato in legno, scala 1 a 20, per studiare gli arconi di imposta. Negli anni, Magistrini diverrà anche, suo malgrado, una sorta di vitello sacrificale: dirige i lavori quando il Professore è a Torino, e, poveraccio, è spesso utilizzato dall’Antonelli come interfaccia tra il municipio e la Fabbrica, e l’architetto stesso, quando tira un’aria di grane. L’abilità del capocantiere sta tutta nel capire al volo gli intenti dell’architetto e le sue direttive: è poi compito del Magistrini implementarle, e non è per niente facile organizzare i turni delle maestranze artigiane (capiremo perché uso tale termine), mantenere l’ordine e la disciplina, costruire le impalcature per lavorare sospesi nell’aria, con scarse o nulle misure di sicurezza, e addirittura impiantare alcune lavorazioni specializzate in ‘quota’. Magistrini è uomo instancabile e assai competente: lo conosceremo meglio. Per ora, abbiamo visto che il direttore del cantiere è alle prese con i lavori per il rifacimento del tamburo della basilica: il nostro ‘meccanico’ comprende subito che qualcosa non quadra. Antonelli delega infatti al Magistrini la messa in opera di una serie di modifiche, rispetto al progetto visionato dalla Fabbrica e dal Municipio, che gli fanno intuire come l’architetto stia pensando a qualcosa di molto più grandioso rispetto alla cupola preventivata. Il capocantiere è l’unico a rendersene conto? Non si sa. Di certo, questa prima campagna è anche la più intensa di tutte, perché nel 1845 impiega 60 uomini e copre 125 mila ore lavorate, in otto mesi. Al termine di quell'anno, gli arconi sono ultimati e si dà inizio ai lavori sul tamburo, con l'acquisto del granito per le colonne interne e del ferro per le enormi catene che contribuiscono a distribuire il peso (circa 5 mila kg comprati dalle ferriere Mongenet di Pont-Saint-Martin, in Valle d'Aosta). Di cupole, in realtà, non se ne vede ancora, poiché sono operazioni prevalentemente interne e finalizzate a gettare le basi per la colossale visione antonelliana. Insomma, l'architetto, già da principio, vuole lasciarsi uno spazio di manovra e pare avere l’urgenza di finire prima che ci si renda conto del suo ‘giocare sporco’. Beninteso: non è certo se fosse in malafede o se vi fosse la complicità del presidente della Fabbrica di San Gaudenzio, il già citato Filiberto Tornielli Rho. Di certo è che Antonelli negli anni tornerà spesso sui varii progetti in corso d’opera, e vedremo come questo romperà, in parte, gli schemi neoclassici tipici della sua formazione giovanile.

A questo punto dei fatti, la grande storia si incrocia con la piccola storia, fino a sfociare quasi nella commedia. Il Comune, che aveva stanziato fondi per arrivare alla prima cupola, si trova a secco prima del previsto; il cantiere si ferma, e nel ’48/’49 sopraggiunge la prima guerra d’Indipendenza a complicare le cose; mentre poco più tardi il presidente della Fabbrica, il Tornielli Rho, muore. Passano anni prima che l’Antonelli sia richiamato in servizio, ma ormai il Professore è un architetto celebre che ha avuto modo di provarsi a Torino e a Novara; soprattutto, per sfortuna dei committenti, Antonelli ha avuto pressappoco un decennio per meditare. Il Professore, celere come suo solito, presenta un disegno aggiornato che chiameremo “secondo progetto” (è il 1856): le modifiche comportano l’aggiunta di un giro finestrato sul tamburo, sotto il colonnato, e l’allargamento delle finestre già previste nel primo progetto del ‘41.



(progetto 1856)


Nel complesso, la creatura antonelliana passerebbe dagli originari 65 metri al suolo, a 75 metri; e acquisirebbe un aspetto più snello del precedente disegno, oltreché una fisionomia in grado di assicurare un maggior apporto di luce alla basilica sottostante. Tuttavia, il Comune vorrebbe limitare la spesa a 30 mila lire e fatica a trovare un impresario che appalti i lavori, cosa che fa perdere mesi e mesi; ma è un errore madornale, perché nei due anni che trascorrono (siamo ormai nel 1858) Antonelli ha avuto ulteriore tempo per aumentare la posta in gioco. Riconvocato il buon vecchio Magistrini, Antonelli dovrebbe cominciare la prima cupola interna a cassettoni; e invece ordina al suo meccanico di impostare un altro giro di pilastri in mattoni. Da fuori, come al solito, non si nota nulla: il fatto è che queste modifiche interne, e Magistrini se ne deve essere accorto subito, rendono irrealizzabile il “secondo progetto”. Se guardate i progetti della cupola, che ho incluso nella versione trascritta di questo podcast, capirete dove si situa il problema: i pilastri aggiunti dal Magistrini obbligano la costruzione a snellirsi ancora di più, e di conseguenza le cupole interne vanno alzate, altrimenti la seconda cupola interna e la terza cupola (esterna) si toccherebbero. C'è un altro problema, per il quale serve Interporre l'ennesimo promemoria storico: nel ’59 viene combattuta la seconda guerra d’Indipendenza, quella che permette ai sardo-piemontesi di annettere la Lombardia, grazie al decisivo supporto militare della Francia di Napoleone III. Con il conflitto si perde altro tempo, ma finalmente, nell’ottobre del ’59, la Fabbrica insiste per avere i disegni esecutivi, e il Professore non può più nascondersi. Antonelli scrive, nell’anticiparli, che “l’opera… si sta eseguendo con inevitabili variazioni dipendenti affatto dalla convenienza delle visuali prospettiche, le quali si appalesano chiaramente mentre l’opera sorge mano mano…”. Insomma, l’Antonelli fa il vago ma neanche troppo.



punti di rottura

Nel marzo del 1860 il nuovo presidente, l’ingegner Ricca, riceve i disegni esecutivi e sorprendentemente ne rimane entusiasta. I disegni comprendono un preventivo per il secondo progetto ad un solo ordine (quello del 1856, pur con la variante, dato a 85 mila lire); e un nuovo, terzo progetto, per una torre-cupola ancora più elevata e snella, e che ha un secondo ordine di colonne (per un costo stimato in 115 mila lire). Ecco dove Antonelli voleva andare a parare: e a dirla tutta, l’ingegner Ricca, in Consiglio, difende il terzo progetto, facendo allusioni al fatto che l’Antonelli è invecchiato (ha più di sessant'anni: all'epoca un uomo oltre i cinquanta era considerato anziano) e che sarebbe più opportuno interrompere il cantiere, che continuare i lavori contro gli intendimenti dell’architetto. Insomma, quello che Antonelli comunica per bocca dell'ingegner Ricca è un vero ricatto, neanche troppo celato; tuttavia, non ha la presa sperata sul Consiglio, che boccia questo progetto con il secondo ordine di colonne e richiede nuovi disegni esecutivi. A questo punto, Antonelli approfitta del fatto di trovarsi a Torino, per rispondere che i disegni sui dettagli della parte esterna non risultano necessari, perché, al momento, ci si poteva concentrare sull’interno. Peccato che sono proprio le modifiche interne a rendere, come già precisato, impossibile il secondo progetto del 1856, quello con un solo ordine di colonne all’esterno. Sembra proprio che nessuno se ne renda conto; ma mi viene il sospetto che il presidente, ingegner Ricca, perlomeno in quanto ingegnere, avesse il polso delle conseguenze tecniche di questi interventi, a scapito del voto in Consiglio. È, questa, una mia personalissima illazione.

Antonelli, d’altro canto, ha di fronte a sè lo scoglio dei costi, e si adopera per dare ai consiglieri il contentino richiesto: nel dicembre del 1860 spedisce al Consiglio una variante semplificata del terzo progetto con i due ordini, assieme ad una lettera che unisce la ruffianeria al solito ricatto di lasciare l’opera a metà. Ancora una volta, non c’è niente da fare… Antonelli però non si arrende: siamo nel marzo dell’anno 1861, il mese e l'anno in cui Vittorio Emanuele II di Savoia è proclamato re d'Italia. l'architetto sottopone al Consiglio un’altra variante, sempre per il terzo progetto a due ordini, e che riduce maggiormente i costi; ma ancora un volta viene bocciata. Antonelli ha davanti una fazione consigliare che gli è avversa (con a capo i consiglieri Pampuri e Serazzi) e che proprio non gliela vuol far passare; ma se devo dirla tutta, quella che potrebbe sembrare una forma di ‘taccagneria’ borghese, pare piuttosto il logico effetto della poca trasparenza dell’architetto.

Alla fine, nel maggio 1861, per tagliare la testa al toro, una commissione tecnica formata dagli ingegneri Colli e Busser viene chiamata a valutare gli ultimi progetti e le perizie dell’Antonelli. Con l’ultima variante del terzo progetto, l’architetto ha abbassato il costo a 91 mila lire (ricordate: nel 1860 erano 115 mila); per qualche mistero, invece, il completamento del secondo progetto con un solo ordine, quindi più semplice, è ora più costoso di quello a due ordini! (E' dato a 102 mila lire; nel 1860 erano 85 mila). inutile precisare che l’Antonelli, oltre ad essere un funambolo dell’architettura, è anche un funambolo della contabilità… Sia come sia, dalle risultanze della perizia Colli-Busser è interessante trarre una delle maggiori angosce (vere o simulate che fossero) circa la costruzione della Cupola: il suo peso e il rischio che crollasse. La perizia fuga ogni dubbio, anche in questo senso: i materiali vengono testati all'Arsenale di Torino, e prima di cedere devono subire una pressione tra gli 83 e i 147 kg per cm2; la Cupola ne carica all'incirca 10 per cm2.

I due periti, nella seduta del Consiglio datata 10 giugno, non si trattengono dal lodare l’impresa antonelliana: “essendosi proposta a modello la natura… [Antonelli] seppe fare una costruzione salda e arditissima”, scrivono i tecnici. Con un tale endorsment (cioè la ragione ferrea del minor costo, pur di fronte a un progetto più ambizioso), nessun Consiglio, per quanto animosamente borghese, può resistere. Il solito consigliere Pampuri, capeggiatore dei contrari, quel giorno è tronitonante; ma ormai la base di consenso che Antonelli sperava si è formata: con quindici voti di maggioranza, è promosso, finalmente, quel tanto agognato terzo progetto con i due ordini di colonne. A parte l’alibi del minor costo, non mancano però le dietrologie: come si è potuta avere una commissione tecnica, la Colli-Busser, tanto accondiscendente (per usare un eufemismo) nei confronti dell’architetto e dei suoi conteggi? E come si è riusciti a ribaltare il voto dei consiglieri in così poco tempo? Accennerò solamente al fatto che Giampietro Morreale, del quale sto usando il saggio per ricostruire questa storia, fa notare che l’architetto apparteneva alla massoneria, così come, probabilmente, la maggioranza dei consiglieri (data l’epoca dei fatti, non c’è molto da stupirsi).

L’ ingegner Ricca, che ha fatto lo sforzo oggettivo di supportare i giochi di prestigio del Professore, si aspetta che Antonelli, del canto suo, accetti qualche rinuncia; ad esempio alle finestrelle rettangolari alla base della cupola esterna. Inoltre, se si confrontano il progetto del ’56 e quello del ‘60, noterete che adesso è previsto un cupolino a due ordini (una sorta di guglia) da poggiare sulla cupola esterna: Ricca chiede all’Antonelli di rinunciarvi per far quadrare i conti. Non c’è dubbio che gli ingegneri Colli e Busser, nella perizia dell’anno prima, debbano aver usato la fantasia per riuscirvi (ad esempio le 9 mila lire spese per i ponteggi, che, come il meccanico Magistrini registra sommessamente, sono ‘sfuggite’ alla loro contabilità).

Antonelli sembra finalmente ammansito, tant’è che, incredibilmente, riporta queste modifiche nei disegni di dettaglio presentati a Ricca. Ahilui, si tratta di una parvenza: quando, nel 1862, la torre è costruita ed è giunto il momento di chiuderla con la cupola esterna, Il direttore dei lavori Magistrini riceve, scioccato, l’ordine di allungare la curva della cupola e preparare i ponteggi per edificare le finestrelle, in barba alle promesse fatte. Dato che sono lavori da eseguirsi per forza di cose all’esterno, Il vecchio trucco dei lavori interni, non visibili che all’ultimo, non può più funzionare: in soccorso del Professore è arrivata però una novità tecnologica che all’inizio del cantiere, vent’anni prima, non esisteva: il treno. Antonelli fa spesso delle toccate e fughe, da Torino a Novara, e lascia il Magistrini a destreggiarsi con il presidente Ricca. Ricca è ovviamente deluso e imbarazzato dai voltagabbana del Professore; nondimeno, si è troppo esposto. Deve in qualche modo far buon viso a cattivo gioco, e fingere, in Consiglio, che “la concessione Antonelli era vantaggiosa per altri motivi… inganandoci luno con laltro mentre lanimo sempre più si amareggiava”, scrive il nostro ‘meccanico’ Magistrini nel suo italiano traballante. Ciò che emerge con chiarezza, da queste parole tratte da una minuta del capocantiere, è che i rapporti tra l’architetto, Magistrini e l’ingegner Ricca erano sempre più deteriori. Magistrini prova infatti a resistere alle pretese dell’Antonelli, oramai invaghito dal desiderio di superare ogni limite strutturale paventato dalle tecniche tradizionali; ad un certo punto, però, Magistrini è talmente sconfortato che vuota il sacco. Per sua confessione, l’ingegner Ricca viene a conoscenza degli inganni orditi dal Professore, e va su tutte le furie: l’ingegnere e il Professore arrivano allo scontro aperto; nondimeno l’Antonelli, messo alle strette, non cede bensì incalza, minacciando Ricca “non solo di voler fare gli archetti ma ancora il doppio ordine di cupolini o che avrebbe rinonciato alla direzione della fabbrica”. Si può solo immaginare lo stato d’animo dell’ingegner Ricca, che è sempre stato sponsor dell’Antonelli, pur dovendo egli digerire non pochi rospi; e che, con buona ragione, teme adesso di far la figura del cioccolataio. I consiglieri, d’altra parte, hanno capito che la Cupola sarà più alta del previsto, e che Ricca, volente o nolente, ha fiancheggiato Antonelli. Scoppia un putiferio che mette a scompiglio tanto il Consiglio della Fabbrica quanto il Municipio, e induce alcuni sostenitori dell’architetto a cambiare casacca, indignati. In tutto ciò, il pubblico novarese, in quell’estate del 1862, ha qualcosa di cui divertirsi e discutere. La cittadinanza è surriscaldata dagli articoli del canonico Vismara, che dalle colonne della sua ‘Vedetta’ toneggia contro la miope dirigenza cittadina e intanto porta acqua al mulino dell’Antonelli, che ha il sostegno popolare. Morale della favola: il Professore vince anche questa battaglia. Magistrini, il quale è in realtà pentito del caos provocato dalla sua confessione, resta saggiamente al posto di comando fino al giugno del 1863, quando rassegna le dimissioni per motivi di salute. Anche i consiglieri della Fabbrica si erano dimessi in blocco pochi giorni prima, in segno di protesta per il fatto che l'Antonelli si fosse discostato dal progetto approvato in Comune. Il Comune, d'altro canto, prova a calmare le acque con una sua commissione tecnica, che si esprime a favore del cupolino (dato come pericoloso per la stabilità della struttura): ennesima vittoria antonelliana.

In ogni caso, la torre-cupola congegnata dall’Antonelli è ormai ultimata, e ha toccato un’impressionante elevazione di 85 metri dal suolo (quasi quanto il vicino campanile alfieriano). Manca solamente il famigerato cupolino a due ordini, o guglia, a completamento di questa ambiziosa costruzione, che subito desta l’ammirazione tanto della cittadinanza quanto dei visitatori esterni. Bisogna infatti ammettere che in generale, secondo le testimonianze dell’epoca, il progetto antonelliano aveva riscosso l’approvazione di larghe fasce della popolazione, non solo alla base, ma anche nella maggioranza dei dirigenti cittadini. In quello stesso anno 1863 Antonelli è alle prese con il Tempio Israelitico di Torino (la futura ‘Mole’), in una sorta di passaggio di testimone tra i due edifici: una suggestione allettante, come se la Cupola novarese fosse stata un banco prova, un terreno su cui sperimentare nuove idee tecniche finalizzate a raggiungere quella verticalità ‘da capogiro’ comune alle due torri. Tuttavia, la storia della Cupola di San Gaudenzio non è ancora del tutto compiuta, anche se i lavori si interromperanno per circa un decennio. Siamo negli anni ’60 dell’800: per la storia dell’arte e dell’architettura, è un punto di svolta che in un certo senso chiude un’epoca (in pittura, sta sbocciando la corrente degli impressionisti come Monet, Degas, Renoir); come nella scelte stilistiche e dei materiali (nel 1865, a Milano, si comincia la Galleria Vittorio Emanuele II del Mengoni). La stessa tipologia e organizzazione del cantiere, il rapporto tra ‘meccanico’ e architetto, e la figura professionale del Magistrini sono ormai in via d’estinzione: un nuovo modo di gestire l’edilizia, infatti, sta prendendo piede. Allora, prima di chiudere questo racconto e ripercorrere di volata i vent’anni che ci restano, vi propongo di conoscere meglio e dal suo interno un cantiere, direi, ‘monumentale’ ; e altrettanto la persona del Magistrini, cruciale per la realizzazione dell’opera.



(progetto 1860)



Il cantiere magistriniano

Tra Giuseppe Magistrini e Alessandro Antonelli corre una distanza sociale notevole, dovuta al fatto che il primo è di estrazione famigliare modestissima e manca degli studi accademici propri di un architetto. Eppure, entrambi sono conterranei, probabilmente amici d’infanzia e quasi coetanei (Magistrini è nato a Maggiora, terra degli Antonelli, nel 1801). Quando riceve l’incarico di lavorare alla Cupola, Antonelli ha l’occasione di poter scegliere maestranze fidate, e tra queste c’è proprio il nostro ‘meccanico’, il quale gli realizza il menzionato modello in legno degli arconi della basilica, e in seguito dirige il cantiere della Cupola. Questo ‘meccanico’, in realtà, si è formato nella bottega di un artigiano falegname: non nasce come esperto di murature. E’, tuttavia, un osservatore acutissimo, addirittura nel campo dell’idraulica. Nel ’27 testa un metodo di sua invenzione per arginare le rotte dei fiumi, una sorta di linea di cavalletti in legno, congiunti da tavole, che comprimono la forza della corrente. Negli anni, Magistrini migliorerà i suoi ritrovati nel campo dell’idraulica, tanto che all’Esposizione di Torino del ’38 sarà medaglia d’oro e avrà una menzione d’onore.

Per quanto riguarda il campo della muratura, nel ’33 troviamo l’architetto e il meccanico fianco a fianco in quel cantiere, che vede presente lo scultore Thorvaldsen, per la realizzazione dell’Altar Maggiore nel Duomo di Novara. Nello stesso anno Magistrini inventa una macchina per realizzare viti e madreviti. Insomma: inventore, falegname, muratore, manager di maestranze, Giuseppe Magistrini si ritrova a dirigere i lavori della Cupola gaudenziana con uno stipendio comprensibilmente faraonico (200 lire al mese). Per la posa degli arconi, Magistrini rispolvera la sua dote di inventore, con la creazione di una macchina per sagomare i mattoni, per farli meglio combaciare e creare quindi “una massa compatta come colata di getto”.

Molte delle nostre conoscenze sui lavori derivano dal diario che Magistrini tiene nel corso degli anni (o meglio, che si basa sulle sue ‘minute’: il diario vero e proprio è compilato dal cognato, il capo-falegname Sormani, di buona calligrafia e miglior padronanza dell’italiano). Il diario è uno squarcio preziosissimo su di un cantiere preindustriale. Purtroppo, con il passare degli anni il registro delle attività diventa sempre più asettico: si perderanno i tratti personali, gli elementi narrativi che permettono di fare considerazioni persino sui singoli operai, sostituiti da bollettini precompilati e forniti dal Comune; per poi scomparire del tutto nelle ultime fasi.

Per la prima fase però (anni 1840), proprio grazie al diario manoscritto, abbiamo la restituzione di un cantiere popoloso (40-60 persone) e assai vivace. I dirigenti del cantiere, oltre a Magistrini, sono il già citato Sormani e il capo-muratore Noè. La manodopera di muratura è attinta dall’impresa di costruzioni del capomastro Angelo Pedrola; ma gli uomini forniti dal Pedrola non sono operai sommessi, anzi: specialmente i maestri, sono artigiani fierissimi e padroni dei propri attrezzi, usi a lavorare indipendentemente secondo il proprio metodo. Per non parlare dei garzoni, che sono in pratica dei ragazzini imberbi ma indisciplinatissimi: “il sig. Angelo Pedrola”, scrive Magistrini al suo fornitore di manovalanza, “è pregato di inclinare i garzoni in generale a voler fare il loro dovere, mentre a me non vale né sgridarli né andar con le dolci”. Tenere insieme i manovali e subordinarli ai principii scientifici del cantiere antonelliano, significa, per Magistrini, congegnare un sistema di incentivi e punizioni assai rigido. È però una reazione quasi necessaria: per farvi capire il livello di reticenza dei muratori esperti, accade che ad alcuni artigiani questi nuovi mattoni ‘acuneati’, cioè sbozzati dal macchinario del Magistrini, non vanno proprio giù. Si crea una fronda di secessionisti (5 uomini) che contestano gli ordini del capocantiere e se ne vanno senza preavviso: i due che tornano indietro, probabilmente perché vicini alla famiglia Tornielli (quella del presidente della Fabbrica), sono ‘condannati per contrappasso’ a sagomare i mattoni con la macchina del Magistrini. Come se non bastasse il dover fronteggiare l’orgoglio, uno dei problemi principali cui badare è la sicurezza sul lavoro: compito terrificante e arduo, visto che si lavora a decine di metri dal suolo, senza imbragature, su ponteggi sospesi; e i garzoni e manovali hanno il gusto di infrangere le regole per pura spavalderia, o per farsi scherzi, o per venire alle mani con altri uomini. Un uomo, per esempio, in un gesto incosciente di sfida si cala dall’argano centrale: viene licenziato in tronco, mentre gli altri due ‘complici’ che lo hanno assistito sono multati. In un'altra occasione, due uomini si mettono a litigare e si scagliano addosso niente po’ po’ di meno che le tegole; un altro non si risparmia a tirare una badilata su di un povero garzone, che finisce nella bacinella della calce; e questi sono casi che riguardano, perlopiù, i garzoni, cioè i giovani. I manovali, adulti, non rappresentano un miglior esempio di condotta: tra chi va a caccia di uccelli sulle tegole del tetto, rovinandole; chi ruba la legna di nascosto; e che si mette a urinare sulla testa dei colleghi, per burla, non mancano esempi spassosi e, allo stesso tempo, quasi giustificativi della severità del Magistrini. Come ci riesce a tenere insieme gli uomini? In primo luogo, obbligando i contravventori a corvèe degradanti, sospensioni dal lavoro, e nei casi peggiori multe salate, anche in natura (il manovale che ha urinato sui colleghi, per esempio, viene ‘condannato’ ad offrire un giro di vino alle vittime). Le punizioni fioccano anche per chi rende poco sul posto di lavoro, e nei casi più eclatanti si può essere addirittura licenziati. La vita di cantiere è durissima, perché oltre alla fatica insita nel mestiere e al pericolo di lavorare per aria, quando le necessità lo richiedano, il capocantiere può modificare l’orario di lavoro; e partiamo da una base di dodici ore giornaliere.

In compenso, non può negarsi che Magistrini dia il buon esempio: addirittura, assieme al cognato Sormani, si trasferisce in un miniappartamento ricavato nel sottotetto della Basilica, e da lì sorveglia le attività. Magistrini, poi, non si approfitta del proprio ruolo di direttore del cantiere per sottrarsi alle giornate di lavoro; e non è nemmeno troppo fiscale, quando si tratta della propria paga, anzi! Negli anni accumula un consistente credito verso la Fabbrica della basilica, e mette danari persino di tasca propria per l’acquisto dei materiali. Nel 1871, dopo la morte avvenuta un anno prima, viene liquidato a suo cognato la cifra astronomica di 6 mila lire, tra scatti di stipendio, anticipi e prestazioni risalenti anche a molto prima (tra questi, ad esempio, c’è il modello in legno che aveva fabbricato per l’architetto Antonelli negli anni ’40)

Per quanto riguarda gli operai, oltre allo stipendio esiste un sistema di premi che perlopiù è gestito dal Magistrini stesso, ma che ogni tanto beneficia della generosità di esterni, come il canonico Vismara, o Filiberto Tornielli Rho, o il fabbriciere Angelo Caccia, tutti di famiglie gentilizie (e danarose). Se non è vino, sono ‘paghette’ consegnate in giorni di festività, premi di produttività o anche per semplice buona condotta.

In realtà, a fronte di salari tendenti al basso, il maggior incentivo per i lavoranti, aldilà dei premi occasionali, sono gli straordinari e, massimamente, il cottimo. I primi sono ‘lavoretti’ che possono essere effettuati negli intervalli di tempo o persino di notte e nei festivi (dal pulire le latrine allo spazzare i pavimenti della basilica); gli altri sono lavori più impegnativi, pericolosi e pagati per quantità, come il tiraggio delle travi, delle pietre e dei mattoni.

In ogni caso, ciò che emerge dai registri delle attività sono rapporti capocantiere-maestranze piuttosto personalizzati e, passatemi il termine, paternalistici. Si vede che il capocantiere ha un controllo piuttosto elevato non solo sulla qualità del lavoro, ma anche sui comportamenti degli operai persino fuori cantiere. Non esistono organizzazioni sindacali che tutelino il prestatore d’opera; e in generale, vige un sistema rigido sbilanciato verso il datore di lavoro. Non parliamo poi del lavoro minorile, e cioè dei garzoni impiegati in compiti ben rischiosi.

Sta di fatto che Giuseppe Magistrini, un po’ come si diceva anche per l’Antonelli, appartiene ad un mondo in sparizione. Il ‘meccanico’ è più che altro un libero professionista, se vogliamo l’equivalente per il mondo dell’edilizia di un direttore d’orchestra: dirige figure professionali autonome o comunque esterne che gli vengono, al massimo, fornite. È un compito che richiede doti altissime, non solo quale esperto nel campo della muratura, ma anche di manager. Quando nel ’63 Magistrini lascia il suo incarico, è chiaro che una figura del genere è ormai fuori dai tempi, per essere iper-qualificata rispetto alle necessità: le comunicazioni (via posta) e i viaggi tra Novara e Torino, e viceversa, grazie ai treni sono ormai rapidissimi. Così, nel decennio 1870, ha preso il sopravvento una diversa organizzazione del lavoro: invece di attingere la manodopera dai capomastri come il Pedrola che, come agenzie interinali, raccattano qua e là i lavoranti (i quali in realtà sono stagionali e/o artigiani autonomi); si passa a imprese edili ben strutturate, e che hanno un organigramma aziendale completo, dall’alto al basso, nonché stabile. È la modernità che avanza, insomma.

Con la morte di Giuseppe Magistrini, nel ’70, questo modo di concepire il cantiere scompare, come spazzata via al concludersi della sua vita (di geniale artigiano, direttore e inventore); e ritengo che una vita così poliedrica calzerebbe in modo impressionante in quella di un artista di età rinascimentale… mi viene in mente la corte sforzesca di fine ‘400, la stessa che accolse un giovane di talento di nome Leonardo da Vinci.

Magistrini ha fatto in tempo a vedere ultimata gran parte della sua (perché è anche sua, con ogni diritto) Cupola gaudenziana. Ha saputo tradurre in mattoni la visione di Antonelli, sebbene non abbia avuto modo di vederne completata la tanto ambiziosa costruzione, con quel cupolino a due ordini che è ormai l’ossessione del suo architetto. Le interruzioni e le vicende legate alla grande storia come alla microstoria glielo hanno, purtroppo, impedito.


Gli ultimi anni e il significato dell’opera: un panettone neoclassico?

D’altra parte, Antonelli gode di ottima salute e longevità. Il tempo pare essere, di fatti, dalla parte del Professore: negli anni ’70, ora che la struttura principale è pronta, ci si dedica alla decorazione e rifinitura della cupola. Di questa fase, sono pregiatissimi i cassettoni in stucco realizzati nella prima cupola interna. A tal proposito, Alessandro Antonelli aveva previsto un apparato decorativo ricchissimo (si veda il “terzo progetto” del 1860): successioni di statue gigantesche, nei giri interni ed esterni, avrebbero vegliato dall’alto e suscitato qualche vaga reminiscenza del colonnato di San Pietro; manca anche l’affresco che avrebbe dovuto adornare la seconda cupola interna, visibile attraverso l’occhio della prima cupola interna a cassettoni, e che sicuramente avrebbe prodotto un effetto scenografico mozzafiato.

In ogni caso, questo luminoso crepuscolo della vita dell’Antonelli è stato sufficientemente lungo da ricreargli una base di consenso in Municipio. I ricordi della scandalosa lite con l’ingegner Ricca, che aveva eccitato l’estate novarese del ’62, è roba dimenticata; e quella torre-cupola, così palesemente incompiuta, aiuta a smuovere le acque. Contribuisce alla decisione il fatto che l’Antonelli è prossimo agli ottant’anni (viene da sorridere, perché il Professore è considerato prossimo alla morte da almeno un decennio, e infatti ha seppellito tutti). Permettergli di completare a suo modo l’edificio pare un atto dovuto. Nel ’76 Antonelli è rimasto solo: Magistrini non c’è più; eppure, come diretttore dei lavori se la cava piuttosto bene. Nel 1878 anche il cupolino è terminato, in appena due anni. Un anno prima, ricordiamo, l’ex-Tempio Israelitico era stata acquistato dal Comune di Torino, città ormai non più capitale d’Italia; e proprio nel ’78 la Mole era divenuta museo del risorgimento, avente per dedicatario l’appena compianto Vittorio Emanuele II, primo re della nazione unificata. Sulla sommità della Cupola di San Gaudenzio viene issata la statua di due metri, in bronzo dorato, raffigurante il Salvatore (l’originale è oggi esposto all’interno della basilica sottostante, all’incrocio dei bracci). Da menzionare che fino agli anni ’30 del xx secolo era tradizione per i giovani novaresi cimentarsi in una sorta di ‘arrampicata’ sul cupolino, a toccare il piede della statua, in una sorta di rito d’iniziazione che non era esattamente senza rischi.

Comunque sia, a parte una fase di chiusura al pubblico e restauri che ha luogo tra il 1882 e il 1887 (dovuta ad alcune fenditure negli antichi pilastri, che all’occasione vengono restaurati e rafforzati), la Cupola si dimostra solida: per il San Gaudenzio dell’anno 1888, l’opera è riaperta al pubblico, e al banco di prova (il terremoto di Bussana del 23 febbraio) si dimostra un edificio resistente. Lo studente liceale, il giovane architetto del Demanio, il Professore, il bugiardo e inarrestabile archistar, l’uomo Alessandro Antonelli ce l’ha fatta. Muore qualche mese più tardi, alla veneranda età di novant’anni; e lo immagino nei suoi ultimi istanti fiero di aver ultimato ciò che, tra tutte le opere, è probabilmente quella che più rappresenta la sua vita, e che come un mausoleo ne preserva meglio la memoria e lo spirito agguerritissimo. La torre-cupola realizzata per la città di Novara appare come un missile di granito e mattoni alto 121 metri (125 secondo quando riporta il sito della Fabbrica). È un’astronave pronta al decollo che assai bene incarna (o meglio, ‘impietra’) lo spirito di slancio proprio del xix secolo e della fremente borghesia piemontese; così come l’estro di un architetto che, pur lavorando con materiali demodè (il mattone e la pietra), ha la capacità di spingere verso un limite impensabile il potenziale delle tecniche in muratura. Se si osservano i monumenti antonelliani, a mia detta, l’impressione di ritorno che se ne può avere è che si tratti dei soliti e ripetitivi panettoni neoclassici; un po’ come certi critici e molti profani si sentono di esprimere di fronte al cosiddetto Altare della Patria, a Roma. Il neoclassicismo dell’Antonelli, specialmente nella Cupola novarese, va però preso con le pinze: è un vestito che il Professore si è portato dietro per tutta la vita, quale conseguenza di anni di formazione e studio in quel gusto. Di fatti, ho sempre nominato il nostro protagonista in relazione all’architettura, e mai l’ho citato nella sua qualità di ingegnere, che forse tra le due specializzazioni è quella che più gli fa giustizia. Ciò che, infatti, rende unico il paludamento neoclassico è il corpo che ne è rivestito: sono le soluzioni tecniche e ingegneristiche estreme, sotto l’abito neoclassico di facciata, che hanno consentito di creare con materiali poveri la Cupola antonelliana; ed è un qualcosa che, personalmente, trovo impressionante al colpo d’occhio tanto quanto la coeva Torre Eiffel (anche se il sottoscritto non è un architetto, né un ingegnere, e quindi non ha le conoscenze per comprendere appieno la magia dei due diversissimi capolavori).

Allo stesso tempo, consiglio di riguardare i disegni che mostrano l’evoluzione dei progetti per la Cupola nel corso dei decenni; e, qualora se ne abbia l’occasione, suggerisco di visitare lo stesso simbolo della città di Novara, magari in occasione della festa patronale (il 22 gennaio) quando lo scurolo di San Gaudenzio è aperto al pubblico. Il design è di obbedienza neoclassica-canonica (cioè, un po' da 'scolaretto') nel progetto degli anni ’40; ma già nella versione del ’56 la Cupola ha una tendenza allo slancio quasi neogotica, con quelle curve ogivali e sinuose che infrangono gli schemi più rigoristi del gusto neoclassico. Un po’ come la macchina del Magistrini appuntiva i mattoni, la fantasia dell’Antonelli ha appuntito sempre più il design della sua torre, che nella sua ultima forma parrebbe una guglia, una Fleche neoclassica di Novara che gareggia con quella perduta di Parigi, di Viollet-Le-Duc. Anzi, mi permetto di dire che, pur da Professore qual era, nel lavoro dell’Antonelli non scorgo proprio niente di accademico: dalla rottura delle linee ortometriche e nette del neoclassicismo sul quale si è formato, al guanto di sfida lanciato alle tecniche costruttive e ai materiali edilizi in voga nell’800, Alessandro Antonelli si dimostra un architetto sui generi. Per la Cupola mi viene in mente una categoria che agli architetti farà sicuramente schifo: lo considero un esemplare di un neoclassicismo barocco, e cioè stravagante, esotico, giganteggiante, sfacciato, alle porte dell’eclettico. Più che la monumentalità severa di un tempio greco, la Cupola ha la teatralità di una scenografia berniniana; ne è complice forse la colorazione grigio-rosa che la distacca da quell’idea Winkelmanniana del classico, sbiancato dalla candeggina di un famoso equivoco della storia dell’arte. A proposito, ciò mi fa pensare che questa divergenza cromatica sia dovuta alla riscoperta e al dibattito sul colore della statuaria antica: i pigmenti sulle statue greco-romane erano stati osservati proprio dagli architetti e archeologi della generazione dell’Antonelli, circa gli anni ’30 dell’800.

Ecco perché la Cupola di San Gaudenzio, pur essendo una ‘Mole’, dal punto di vista stilistico, storico, storico-artistico, è altra rispetto alla ‘Mole’ torinese. Ma qual è, in conclusione, il suo valore per la città di Novara? Vorrei richiamare le risultanze di una piccola indagine che ebbi l’occasione di compiere nel 2019, come parte di uno dei corsi della mia stagione londinese. Ricordo che tra i valori attribuiti alla Cupola dal piccolo campione di novaresi da me intervistati, il tema più ricorrente era la capacità propria al monumento di dirti che sei a casa tua; non intendo puramente in senso emotivo, ma letteralmente in senso geografico. La cupola è visibile per chilometri e chilometri, e con un cielo terso la vista, dalla sua sommità, può spaziare fino alle guglie della basilica di Sant’Andrea, a Vercelli; e anche fino a Milano. Soprattutto, per chi si avvicina alla città la Cupola è un landmark dominante sul paesaggio, riconoscibilissimo. Direi che con la Cupola accade una inversione di ruoli tra paesaggio e bene culturale: è la Cupola che propone una sua chiave di lettura a quello scenario di risaie che ha le Alpi per fondale (con il Monte Rosa in fondo); paesaggio rimasto più o meno immutato dai tempi dell’Antonelli, con la sua vocazione ancora oggi agricola. Forse è questo il senso maggiore di ciò che lasciarono quanti hanno sognato e costruito la torre-cupola gaudenziana, fabbricieri e dirigenti municipali, manovali e garzoni, Magistrini e Antonelli: hanno dato a generazioni di donne e uomini un simbolo cittadino e allo stesso tempo intimo, con il quale orientarsi tanto nel tempo quanto nello spazio. È, insomma, il risultato di una visione antica, addirittura cinquecentesca, che ha atteso fino a metà 800 un qualcuno che vi desse forma. Ciò che non ci si aspettava era che tra visione e forma si interponesse il genio di chi ha fatto schizzare la seconda sempre più verso l’alto, a disturbare le nuvole e le vette alpine. Il genio di Alessandro Antonelli. Grazie per l’ascolto! Alla prossima!

(Se questo racconto è stato di tuo gradimento, non esitare a commentarlo e a scrivere i tuoi consigli, suggerimenti e proposte per migliorare in futuro. Anche la scelta del prossimo argomento potrà essere condizionata dal tuo contributo personale. Riguardo ai materiali usati per questo podcast, troverai in calce alla trascrizione i riferimenti da me usati, di modo che tu stesso possa approfondire la storia che ti ho raccontato. Alla prossima!)


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI (PARTE 1 E PARTE 2)

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Gabetti, R., 1962. Problematica Antonelliana. Atti della Società degli Inggegneri e degli Architetti in Torino, giugno, pp. 157-194.


Gallenga, A., 1856. Storia del Piemonte dai primi tempi alla pace di Parigi del 30 marzo 1856. In: Eclissi del Piemonte. Torino: Freddi Botta Tipografi, pp. 374-431.


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Morreale, G., 1988. Un Simbolo per la Città - La Costruzione della Cupola Antonelliana e la Società Novarese dell'Ottocento. In: D. Biancolini, ed. Il Secolo di Antonelli - Novara 1798-1888. Novara: Istituto Geografico DeAgostini, pp. 23-98.


Vassalli, S., 2015. La Chimera. Milano: BUR Rizzoli


Vassalli, S., 2016. Cuore di Pietra. Milano: BUR Rizzoli.



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